L’incredibile viaggio di Honor che la sta portando a diventare il terzo produttore di smartphone e a conquistare l’occidente
Una storia come brand giovane e flessibile di Huawei, poi il buio con l’embargo americano, che ha portato alla vendita dell’azienda. Dopo anni di enormi sacrifici e duro lavoro per la ricostruzione, oggi finalmente Honor sta tornando ad essere un riferimento nel mercato e nell’innovazione.
Dalle stelle alle stalle, e poi alle stelle ancora – o almeno sulla buona strada per arrivarci. Si può riassumere così in una frase il travagliato percorso di Honor, un percorso davvero unico nel suo genere, perché è davvero raro che un’azienda, dopo un duro colpo come quello subito da Honor con l’embargo americano, riesca in così poco tempo ad essere ricostruita e a tornare sul mercato più forte di prima.
Il consumatore ha la memoria breve, e probabilmente ormai sono pochi coloro i quali ricordano le origini e la storia di Honor, il che da un lato è anche un bene, perché così si apre l’opportunità di ricostruire da zero la percezione del brand sul mercato.
Honor nasce come brand giovane e snello di Huawei per rispondere alle mutate esigenze dell’azienda: ai tempi Huawei stava diventando un produttore di smartphone sempre più affermato, ma doveva trovare un modo per competere con altri, nuovi, produttori cinesi di smartphone – soprattutto Xiaomi - che avevano cominciato a fare fortuna con il concetto di flagship killer - telefoni sulla carta competitivi con i top gamma pur constando molto meno – e con le vendite sui canali online. Troppo rischioso cambiare il modello di business di Huawei per cercare di competere con questi nuovi brand: la soluzione più semplice e saggia era quella di mettere in piedi un nuovo brand più giovane e più snello per attaccare quel segmento senza rischiare di compromettere la fiducia guadagnata fino a quel momento da Huawei sui mercati più mainstream. Un’operazione, quella messa in atto da Huawei, che ha funzionato benissimo e ha portato ottimi risultati.
Poi è arrivata la tempesta: quando nel 2019, per volontà dell’amministrazione Trump, il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti impose a Huawei il divieto di commerciare con le imprese americane – temendo una relazione dell’azienda con il Partito Comunista Cinese – le cose per l’azienda di Shenzhen hanno iniziato a precipitare. Non avendo più accesso alle tecnologie americane, Huawei ha subito un contraccolpo durissimo, soprattutto nella divisione smartphone, ma anche nei servizi di telecomunicazioni. C’era un’unica divisione che potesse essere salvata e che soprattutto non si portasse appiccicato il nome di Huawei: stiamo parlando, ovviamente, di Honor.
Honor era già un brand a parte e con un minimo livello di autonomia, e poi si occupava solo di produrre smartphone, non certo di apparati di telecomunicazioni. Così, nel dicembre del 2020, circa un anno dopo l’entrata in vigore dell’embargo americano, Huawei riuscì a vedere Honor a un gruppo di distributori cinesi, gruppo che, per ironia della sorte, è appoggiato e finanziato dal governo cinese e non ha bisogno di nasconderlo.
Da qui in poi, era chiaro che la strada sarebbe stata tutta in salita. La vendita aveva salvato per il momento l’azienda, ma non sarebbe stata certamente la panacea di tutti i mali. Anche perché Honor all’epoca aveva sì ereditato 8.000 ingegneri da Huawei, oltre a vari brevetti e tecnologie, ma non aveva neanche lontanamente gli asset per andare avanti. In pratica, gli ingegneri e le tecnologie erano la base: l’azienda andava ricostruita da zero.
Eppure, non tutto il male vien per nuocere. È vero, Honor non aveva più laboratori, centri R&D, una rete di vendita, una strategia delineata, niente di definito: doveva ripartire da zero. Ma ripartire da zero è anche una incredibile opportunità di sviluppo, perché permette di affrontare le sfide con un approccio aperto, elastico, senza le rigidità di una struttura aziendale consolidata e di processi che durando da anni. Insomma, come una startup, ma con risorse economiche e un bagaglio di capitale umano e di know-how che nessuna startup potrebbe neppure sognare.
Così, passo dopo passo, Honor ha iniziato a mettere giù i tasselli per ricominciare. A partire dai nuovissimi centri di ricerca e sviluppo e le nuove fabbriche di Shenzhen, per passare poi dal marketing fino alla distribuzione in tutto il mondo, l’azienda che un tempo era stata sotto il cappello di Huawei è arrivata oggi ad avere tutti gli asset per competere sul mercato ad armi pari non solo con tutti gli altri brand cinesi, ma anche con Samsung e forse pure con Apple.
Oggi Honor ha una lineup di prodotto assolutamente completa, che copre con prodotti validissimi tutte le fasce di prezzo, partendo dalla serie X, quella economica, passando per la serie “liscia” (identificata solo da un numero) che copre la fascia media, arrivando alla serie Magic, i top gamma, che comprende anche il V2, quello che almeno nell’hardware è il miglior pieghevole sul mercato.
Il Magic V2
Il Magic 6 Pro
E ha un vantaggio nell’esser partita da zero: ora i suoi laboratori e centri R&D sono molto più avanzati di quelli dei competitor, per il semplice fatto di essere molto più recenti; se aziende come Oppo o Xiaomi hanno laboratori vecchi ormai di quasi dieci anni, costruiti nel periodo della “febbre degli smartphone”, in cui migliaia di tecnici lavorano senza sosta per testare, montare e assemblare, Honor può invece contare su impianti recentissimi, quasi interamente automatizzati, dove il lavoro umano è veramente minimo e l’efficienza è elevatissima.
Un altro vantaggio che Honor ha avuto nel ripartire come una startup con le risorse di una multinazionale, è stata la possibilità di ricreare nel mercato e tra i consumatori la consapevolezza del brand libera da qualsiasi vincolo del passato, quasi come se fosse una new entry, perché nel passaggio da Huawei a società autonoma si è persa tutta quella storia di “brand secondario” di Huawei, il che è stato un bene, perché ha dato a Honor la libertà di proporsi come brand di prima categoria a tutti gli effetti, in grado di raccogliere il testimone e innovare come un tempo faceva Huawei, diventando leader nell’innovazione tra i produttori cinesi di smartphone.
D’altra parte, gli unici due brand cinesi, oltre a Huawei, che sono riusciti a costruire qualcosa in occidente, sono stati Oppo e Xiaomi. Tuttavia - oltre a non aver minimamente scalfito il mercato americano - Oppo negli ultimi anni ha avuto grandi difficoltà anche nel mercato europeo, e Xiaomi, persa la spinta iniziale di brand “flagship killer”, non è riuscita ad affermarsi come vera e propria terza forza del mercato, in grado di competere ad armi pari con Samsung ed Apple.
Ed è anche per questo probabilmente che il governo cinese crede in Honor: se c’è un brand che può dire la sua in Occidente, questo è Honor, e il governo lo sa. Del resto, Honor è quello che oggi sembra il più occidentale dei brand cinesi, forse anche grazie all’esperienza maturata sotto Huawei - pur non avendo ancora raggiunto il livello di Samsung o Apple, perché non riesce del tutto a staccarsi dalla mentalità orientale di puntare tutto sull’hardware, salvo poi trascurare elementi più importanti, come il software o l’esperienza dell’utente. Eppure, Honor nel complesso è quella che ha le idee più chiare su cos’è e cosa vuole diventare, ma soprattutto sa come conquistare la fiducia del pubblico; non perché ad oggi abbia le tecnologie più avanzate, ma perché sa eseguire bene i fondamentali: grandi prodotti, ottimo marketing e perfetta distribuzione.