Gli scaffali della grande distribuzione sono pieni di notebook low-cost, e questo è un problema
Nelle catene che vendono elettronica di consumo solo i MacBook alzano l’asticella della qualità, tutto il resto sono notebook da cestone, venduti spesso in offerta o sottocosto.
Provate a fare un giro turistico nei vari reparti “informatica” nei negozi delle catene della grande distribuzione di elettronica di consumo e date un’occhiata ai prezzi esposti. Di solito la desolante situazione è la seguente: file o cestoni di notebook Windows low-cost, a prezzi scontati, e poi un banco separato dedicato ai MacBook. Gli unici prodotti a salvarsi sono a volte i Surface - comunque buttati spesso nel mucchio dei laptop da cestone - e qualche PC desktop o notebook da gaming, comunque anche in questo caso entry-level.
Ora, se consideriamo che, a differenza di chi mi sta leggendo, la gran parte degli utenti di questi retailer ha conoscenze molto limitate del settore – perché chi sa cosa vuole acquistare non passa ore a perdere tempo con i commessi dei negozi – è chiaro che l’idea che si faranno queste persone sarà più o meno che Apple è l’unica azienda al mondo capace di produrre portatili premium e che tutti gli altri realizzano prodotti economici e di seconda categoria. Ovviamente chi segue il mercato dell’elettronica di consumo sa benissimo che non potrebbe esserci nulla di più distante dalla realtà, non perché i prodotti Apple non siano premium, ma perché non sono certamente gli unici, visto che tutti i brand mainstream coprono ogni fascia di mercato, compresa quella premium. Ma, ahimè, questa porzione di consumatori rappresenta pur sempre una minoranza, e i grandi numeri nelle vendite li fanno gli utenti comuni che non conoscono il settore e che – avendone ben donde – non sono interessati a studiarlo.
Ma così ci troviamo davanti a una situazione paradossale, in cui i notebook Windows nella fascia premium non sono mai stati così competitivi, eppure il consumatore medio che entra in un negozio probabilmente non li vedrà mai: e così quasi 4 ultrabook venduti su 5, nella categoria sottili e leggeri, sono MacBook.
Ma la colpa non è neanche tutta dei retailer: loro studiano il mercato, valutano la domanda e assortiscono di conseguenza i magazzini. Una responsabilità maggiore sarebbe invece da attribuire ai maggiori produttori di notebook Windows, che potrebbero investire di più nel retail per far conoscere i loro prodotti, un po’ come hanno fatto i brand cinesi di smartphone che negli ultimi anni hanno capito quanto sia importante presidiare i punti vendita della grande distribuzione con isole dedicate solo ai loro prodotti: è un investimento che può apparire in un primo momento oneroso, ma che a lungo termine crea nei consumatori la consapevolezza del brand.
È una questione di modelli di business, certo: i produttori spesso puntano al mercato professionale o entreprise, mentre Apple da sempre si concentra sul mercato consumer. Eppure, un maggiore sforzo da parte dei produttori sul mercato consumer farebbe bene a tutti, perché si creerebbero le condizioni per una più accesa competizione, che a sua volta porterebbe ad avere prodotti migliori, magari anche più originali sotto il profilo estetico.
E poi, chissà, magari proporre ai consumatori prodotti con una qualità mediamente più alta potrebbe far aumentare, magari di poco, i prezzi medi di vendita in un settore in forte crisi, in cui non solo le unità vendute, ma anche il valore stanno calando di anno in anno, con la sola eccezione del periodo di pandemia da covid-19. D’altra parte, se i consumatori iniziassero ad associare dal principio un prezzo più alto alla categoria di prodotto “notebook”, il mercato potrebbe almeno recuperare un po’ di valore da quegli utenti che in realtà potrebbero premettersi prodotti premium, ma che oggi per un motivo che possiamo considerare culturale ritengono 500-700 euro la fascia di prezzo giusta per un notebook. Motivo culturale che certamente dipende in parte dai retailer, che in questi anni hanno proposto quasi solo prodotti di fascia bassa facendosi la guerra sul prezzo, invece che cercare di aumentare i prezzi medi di vendita. E così le grandi catene sono diventate dei grandi discount di tecnologia, in cui l’offerta è sempre più scadente e i consumatori vengono guidati nella scelta solo dal prezzo.
Si tratta dunque, in fin dei conti, di un grande circolo vizioso, in cui tutti hanno le loro responsabilità e che punta nella direzione del ribasso dei prezzi, della diminuzione del valore aggiunto per i consumatori, e dell’erosione dei margini per retailer e produttori.
Non solo: i consumatori non perdono solo in termini di qualità del prodotto, ma anche del servizio. La qualità della consulenza e dell’assistenza post-vendita sono elementi di primaria importanza per l’esperienza del cliente, ma non è possibile offrire un servizio clienti di qualità vendendo notebook da cestone sottocosto. Ed è un vero peccato, perché proprio il servizio clienti è quell’elemento che permette di creare valore aggiunto in un settore che altrimenti può solo puntare a fare volumi facendo la guerra dei prezzi; al contrario, garantire la centralità e la qualità del servizio clienti è un’ottima strategia per fidelizzare questi ultimi e porre le basi per un business solido, che sia in grado di affrontare la crisi del mercato dell’elettronica che stiamo vivendo in questi anni.
Ok, facile criticare, ma allora cosa possiamo fare? Per prima cosa, sarebbe necessario rivedere gli assortimenti dei magazzini e iniziare a formulare un’offerta più coerente e completa, soprattutto che copra anche la fascia premium, proprio quella su cui sarebbe più necessario puntare: sono sicuro che nelle sedi centrali dei retailer ci sono persone estremamente qualificate con le competenze necessarie per condurre questa operazione.
In secondo luogo, è urgente rivedere l’organizzazione dei punti vendita: così non sono efficaci, perché sono strutturati in modo tale che i clienti siano guidati nella scelta solo dal prezzo. E questo non accade solo a causa della disposizione dei prodotti: se proseguendo nel giro turistico di uno di questi negozi avete mai provato a interagire con i device, avrete notato che in moltissimi casi sono spenti o bloccati. Non c’è miglior modo per allontanare i potenziali clienti se non mettendoli davanti a macchine morte e tutte uguali. Ora, se consideriamo che gli Apple Store sono i negozi con il più alto fatturato per metro quadro al mondo - e che lì è possibile interagire con tutti i prodotti, prenderli in mano e sentirli propri prima ancora di concludere l’acquisto - viene da chiedersi se permettere ai clienti di mettere le mani sui dispositivi non sia una buona idea.
E poi, per finire, il servizio clienti. È fondamentale poter fornire una consulenza e un’assistenza post-vendita di qualità, e per farlo è necessario assumere personale qualificato, che sia in grado di fornire un servizio ai massimi livelli e che sappia di cosa sta parlando. Personale che tuttavia, se deve possedere competenze di alto livello dovrà anche essere remunerato di conseguenza, situazione sostenibile solo aumentando i margini.
Ecco allora che si chiude il cerchio: puntare sulla vendita di prodotti premium fa bene ai clienti, ai retailer, al mercato, ai produttori. E così vincono tutti.