Apple si sta preparando al rinnovamento completo delle sue interfacce grafiche, e questa è una grande notizia.
L’azienda californiana storicamente è sempre stata copiata dai competitor in fatto di design e interfacce, lasciando segni decisivi nello sviluppo dell’industria. E se Apple ha intenzione di cambiare, dovremmo aspettarci che seguano anche molti altri: per questo è importante che il cambiamento sia in meglio.
È fresca di stampa (si fa per dire) la notizia di Bloomberg secondo cui Apple sarebbe in procinto di dare una svecchiata alle sue interfacce grafiche. Anzi, qualcosa in più di una svecchiata: non solo dovrebbe cambiare completamente il design degli elementi grafici fondamentali che compongono l’interfaccia, ma anche lo stesso modo di interagire con app e finestre. Se il design attuale risale ai tempi di iOS 7, lanciato ben 12 anni fa, il modo di interagire non è mai cambiato profondamente dall’introduzione di iPhone e iPad, mentre per il Mac dobbiamo tornare indietro al 2001, anno in cui è stato rilasciato MacOS X, per risalire all’ultimo profondo cambiamento.
Insomma, sembra che la notizia sia grossa, a mio avviso non solo per gli utenti Apple, ma per gli utenti di tutte le piattaforme e per l’industria in generale. Non è un segreto, d’altra parte, che ogni qualvolta la Mela esprime la sua visione su come dovrebbe essere fatto qualcosa, tutti gli altri, dopo aver remato contro inizialmente, finiscano per copiare quell’idea in modo più o meno evidente. Non che sia un fenomeno positivo, ovviamente: se è cosa buona copiare ciò che funziona meglio di tutto il resto, sappiamo che spesso il motivo che porta i competitor a copiare Apple non è da cercare nella superiorità delle scelte fatte a Cupertino, quanto nella necessità di uniformarsi all’ultima tendenza: poiché Apple ha capito come rendere desiderabile e alla moda tutto ciò che fa - anche se non sempre compie le scelte giuste, o almeno non quelle migliori per tutti - è inevitabile che chi ha idee altrettanto buone, ma non ha la forza per imporle, non abbia altra scelta se non uniformarsi e cavalcare l’onda altrui per non restare tagliato fuori.
Se quindi le persone che lavorano in quella specie di nave spaziale rotonda hanno questo potere di influenzare le decisioni finali degli altri, allora è bene che prendano la decisione giusta, perché la loro responsabilità va ben oltre i loro utenti, che già non sono pochi, ma verso tutti gli utenti di dispositivi mobili e computer nel mondo.
E chi più ha copiato il design di Apple dei produttori orientali? Gli ultimi a fare notizia sono stati quelli di Xiaomi all’ultimo Mobile World Congress di Barcellona, che hanno ben pensato di fare una copia spudorata dell’iPad Pro con relativa penna e tastiera, non facendosi mancare poi la copia di Image Playground. Al di là di considerazioni legali sui brevetti, stupisce la volontà di un’azienda come Xiaomi, che ha più volte dimostrato di essere in grado di portare sul mercato vera innovazione con prodotti assolutamente originali, di copiare un prodotto che non è neppure perfetto, visto che la tastiera che Apple ha fatto per l’iPad Pro non è nemmeno particolarmente riuscita: eppure l’hanno copiata ugualmente.
Honor Watch 5
Andando oltre il caso estremo del plagio, è evidente l’ispirazione dei produttori di smartphone, tablet e indossabili cinesi per le interfacce dei dispositivi Apple nelle loro personalizzazioni di Android: anche con tutte le varianti del caso, buona parte del linguaggio grafico è identico a quello made in USA, come si può notare dalle schermate sotto.
Alcune schermate di Honor MagicOS: i riferimenti a iOS sono evidenti
Ebbene, tutti questi linguaggi grafici hanno in comune una cosa: sono decisamente piatti. Ora, il termine “piatti” potrebbe essere interpretato in modo ambiguo, nel senso che sarebbero noiosi. Beh, in effetti ormai questo stile ha iniziato a stancare, e sembra che a Cupertino se ne siano accorti. Ma il motivo che portato ad appiccicare questo nome a questo tipo di interfacce è che in effetti in questo stile grafico sono quasi del tutto assenti le profondità. Se per anni, e in un certo senso ancora oggi, questo linguaggio di design è stato considerato moderno e all’avanguardia, oggi si inizia a sentire la necessità di qualcosa di nuovo, magari in grado di rappresentare meglio la fusione sempre più stretta tra mondo reale e mondo virtuale.
Tuttavia, per capire l’attuale direzione che potrebbero prendere Apple e il mercato in genere, bisogna fare un passo indietro.
Prima dell’adozione del design “flat” le interfacce Apple adottavano un linguaggio detto “sheumorfismo”: si tratta di un linguaggio che prevede l’ispirazione e il richiamo a elementi del mondo reale nel design delle interfacce software. Così, nelle versioni di iOS precedenti alla 7, per esempio, l’app note è un richiamo fedele a un classico blocco appunti cartaceo, la libreria è disegnata come una vera libreria di legno, e così via. Insomma, l’idea alla base di questo approccio è che richiamare elementi del mondo reale serva per far sentire gli utenti a loro agio con le applicazioni e per renderne più semplice e intuitivo l’utilizzo.
Se però guardiamo oggi a posteriori alle interfacce dell’epoca ci paiono antiche, pesanti e poco graziose; quasi goffe e ridicole. Se rivolgiamo l’attenzione ad altre scelte dell’epoca è evidente il richiamo al mondo fisico in Windows Vista e Windows 7: in questi sistemi l’idea è che tutto è fatto e deve apparire come se fosse veramente fatto di vetro; l’interfaccia assume quindi una dimensione decisamente fisica.
Bisogna poi considerare un ulteriore problema di questo approccio che va al di là del semplice aspetto visivo: se i richiami al mondo fisico possono essere utili per semplificare l’interazione con alcune applicazioni, possono paradossalmente creare confusione e complicazione in applicazioni per le quali non è possibile trovare un’analogia nel mondo fisico. Dopo il 2010, quando hanno iniziato a diffondersi a tappeto servizi online senza alcuna analogia con il mondo reale, come il cloud, le chat o i social media, ha iniziato ad avere sempre meno senso mantenere questo stile. Un esempio lampante è quello dell’applicazione Game Center di iOS, che pur essendo costruita come un tavolo per giocare a carte non aveva nulla a che fare con i giochi di carte: questo problema stava diventando sempre più frequente.
Ecco allora che nella prima metà dello scorso decennio iniziano a diffondersi le interfacce “flat”, piatte. Nella visione di Jony Ive, al vertice del team di design alla Apple dell’epoca, il software doveva mantenere una onestà nella scelta dei materiali e delle forme tanto quanto gli oggetti tangibili: se per Ive il legno deve apparire come legno, il metallo come metallo e la plastica come plastica, allora il software deve apparire come software. Già, ma come appare il software? Il software deve essere astratto e intangibile, come un libro stampato. E i libri stampati tendono ad essere piatti, bidimensionali, non richiamano altri elementi. Il design grafico pensato per la stampa non tiene conto di analogie: è un linguaggio universale, comprensibile da tutti. Ecco, lo stesso vale per il software, che deve essere elegante e deve essere un mezzo comprensibile per fare cose che nel mondo fisico sarebbero impossibili.
Ecco allora che il linguaggio adottato deve diventare bidimensionale, e deve fare uso di segni e simboli che molto spesso hanno il compito di richiamare concetti astratti.
È evidente la corsa al design piatto in quest’epoca: un anno prima del rilascio di iOS 7, Microsoft aveva lanciato Windows 8, con la sua interfaccia detta “Metro”, incredibilmente piatta, molto più piatta di quella di Apple. E Android si è presto uniformato alla “piattezza” di iOS.
C’è un’altra considerazione da fare sulla trasformazione delle scelte grafiche in quegli anni, che riguarda la risoluzione degli schermi: in casa Apple era il periodo del passaggio agli schermi retina, molto più risoluti e anche con un contrasto superiore. Se fino a quel momento la gran parte delle scelte compiute in materia di interfacce doveva tenere conto di come poi queste sarebbero apparse sul display, con i display retina queste considerazioni sono diventate superflue, poiché tutti gli elementi grafici, se ben disegnati, sarebbero apparsi gradevoli su un display retina, a partire dai font: molti font nati nell’epoca digitale, infatti, sono stati disegnati con l’obiettivo di apparire quantomeno decenti su schermi molto meno risoluti di quelli odierni: oggi invece, sui display ad alta risoluzione, o meglio, con un numero elevato di pixel per pollice, questi font appaiono banali e poco graziosi, mentre altri font più comuni nel mondo della stampa ora appaiono allo stesso modo anche a video. Questo stesso discorso può poi essere traslato a tutti gli elementi dell’interfaccia grafica.
Ogni problema è stato risolto per sempre, allora. O almeno per il momento. Dopo un decennio di grafica piatta è anche naturale cercare di creare qualcosa di diverso, se non altro per mantenere vivo l’interesse per il mondo digitale: come tutte le cose, anche il design, per quanto ben riuscito, alla lunga stanca. Trovare qualcosa di meglio, che sia anche utile, non è però una sfida semplice: non si tratta solo di una questione estetica, ma di funzionalità: “dalla funzione la forma” era uno dei motti del Bauhaus.
Così, nella ricerca del linguaggio grafico perfetto, i designer oggi si trovano ad avere a che fare non più solo con schermi bidimensionali, ma anche con l’emergente mondo della realtà virtuale e della realtà aumentata. Un mondo vastissimo che pone sfide inedite in termini di progettazione delle interfacce in ottica spaziale: queste dovranno quindi essere intuitive, pratiche e facili da usare nelle tre dimensioni, portando esperienze nuove, impossibili da ottenere con le interfacce bidimensionali.
E se c’è un elemento del mondo reale che più di ogni altro ha il potere di influenzare la nostra percezione dei volumi e degli spazi, questo è la luce. La luce, e il modo in cui questa interagisce con la materia, è ciò che determina la nostra percezione visiva del mondo: spesso cambiare il modo in cui un oggetto o un materiale viene illuminato significa cambiarne il modo in cui appare. Ecco allora che nel progettare le interfacce grafiche oggi bisogna tenere conto di questo fondamentale aspetto, secondario nel mondo bidimensionale di un display, ma imprescindibile nel mondo tridimensionale di un visore o di un paio di occhiali AR. Benvenuti nell’era del neomorfismo.
Il neomorfismo è la versione moderna dello scheumorfismo: è un linguaggio che non si ispira più a elementi reali della vita quotidiana: la base resta astratta, ma l’implementazione riprende il mondo fisico nel modo in cui si comporta la luce. Se implementazioni complete del neomorfismo ancora non se ne sono viste, qualche elemento già inizia a comparire. Per esempio, mentre il design di iOS tutt’oggi mantiene l’approccio piatto di dodici anni fa, l’attuale design di macOS, introdotto peer la prima volta cinque anni fa, contiene alcuni elementi dell’interfaccia disegnati tenendo conto dei principi del neomorfismo, in particolare le icone di alcune applicazioni di sistema. Se prendiamo molte delle icone comuni ad iOS e macOS si nota questa differenza: nella versione iOS l’intera icona è definita solo dal colore, mentre nella versione macOS subentra anche la luce, che conferisce tridimensionalità a quello che resta pur sempre un segno astratto.
Probabilmente in futuro vedremo sempre più spesso questo approccio implementato dai produttori di software, anche in ottica di continuità e coerenza tra il mondo della realtà virtuale, aumentata e il paradigma più tradizionale delle interfacce bidimensionali, che continueranno ad esistere per molti anni ancora. Non ci sarebbe quindi da stupirsi se la trapelata intenzione di Apple di innovare le sue interfacce si traducesse in una completa adozione del design neomorfico: sia per mantenere la continuità tra il Vision Pro e gli altri dispositivi - visto che, è ormai evidente, Apple ritiene che lo spacial computing sia il futuro del computing - ma anche per differenziarsi da tutti quei produttori orientali che un po’ alla volta hanno copiato iOS a tal punto che ormai l’unico modo per differenziarsi visivamente è proporre qualcosa di nuovo.