Fate i backup, o saremo una generazione dimenticata

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Con l’approcciarsi della primavera, sta per tornare anche quest’anno il consueto appuntamento con il backup day: un’occasione per riflettere sul valore dei dati e della memoria digitale nella nostra epoca.

La primavera, il caldo, il sole, e il backup day. E no, non è un pesce d’aprile, perché si celebra il giorno prima, visto che solo i pazzi possono pensare di fare a meno dei backup (in inglese il 1° Aprile si chiama “Fools day”, dove i “fools” sono i pazzi).

Allora a quanto pare ci sono molti pazzi nel mondo, visto che statistica dopo statistica, anno dopo anno, emerge che solo una minoranza di chi usa dispositivi elettronici nel mondo esegue i backup dei propri dati in modo completo e regolare: possiamo discutere sul come e sul quanto, ma è realistico affermare che la percentuale si aggira attorno al 20%. Un dato incredibile, se pensiamo che gli stessi sondaggi hanno rilevato che al tempo stesso circa la metà degli intervistati ritiene di possedere, un certo senso, quasi tutta la sua vita all’interno dei propri dispositivi, e che un’eventuale perdita dei dati possa rappresentare un serio problema.

Potrebbe sembrare che questo scostamento sia ridicolo, eppure se pensiamo alla nostra esperienza diretta sarà capitato un po’a tutti di sentire discorsi del tipo: “eh, io avevo tutto sul cellulare, ma ora si è rotto e non so come fare”. C’è dunque un problema culturale e di competenze digitali alla base della perdita dei dati, almeno per molte persone.

Se escludiamo una sparuta minoranza che nel mondo sviluppato ancora quasi non ha una vita digitale, possiamo dire che generalmente le persone si rendono conto di possedere molte cose importanti all’interno dei loro dispositivi, ma non hanno le competenze digitali per gestire un backup serio e completo di tutti gli apparecchi, o addirittura, in molti casi, non sanno nemmeno cosa sia un backup.

Ci sono varie considerazioni da fare alla luce di questi dati.

La prima considerazione è che disponiamo oggi di strumenti che la gran parte delle persone usa senza saper usare. Le tecnologie digitali hanno una potenza enorme, e questo ne ha incentivato una diffusione capillare nelle società moderne, al punto che oggi non sarebbe più possibile immaginare un mondo senza computer, esattamente come non potremmo tollerarne uno senza energia elettrica o mezzi di trasporto. I computer hanno veramente cambiato il mondo, ma si sono anche diffusi rapidamente in un contesto che non era pronto ad accoglierli e che forse non ne è capace nemmeno adesso, dopo tutti questi anni. Di fatto ci siamo costruiti un mondo dipendente da strumenti potenti, i computer nelle loro varie declinazioni, senza però che le società fossero in grado di beneficiarne: così è solo aumentato il divario tra chi sa padroneggiare la tecnologia, traendone grande beneficio, e chi non la padroneggia, che è destinato a rimanere indietro ed emarginato. La velocità del cambiamento ha travolto le comunità umane, che per natura cambiano lentamente. L’Uomo cerca la continuità, la regolarità, è refrattario al cambiamento: cos’è la tradizione se non il ripetere schemi predefiniti, per paura del nuovo? Ecco, le tecnologie digitali sono penetrate in profondità nelle comunità umane prima ancora che queste potessero assimilare il cambiamento.

È un po’ il ripetersi del fenomeno che gli storici hanno individuato in riferimento al periodo della rivoluzione industriale, in cui il progresso tecnico è stato più rapido della capacità delle società di assimilarlo, solo su una nuova scala. Se pensiamo però a uno dei simboli della rivoluzione della petrolchimica, l’automobile, l’analogia porta a pensare che se serve una licenza per guidare un’automobile, dovrebbe servirne una anche per usare un computer. Ora, siamo d’accordo sul fatto che con un computer è più difficile – difficile, non impossibile - fare del male a qualcuno che con un’automobile, eppure non possiamo negare di aver dato in mano uno strumento potentissimo a milioni di persone che non sanno gestirlo, e che rischiano così di farsi male da sole. Così come ci siamo dati delle regole per disciplinare l’uso delle automobili, sarebbe logico fare altrettanto, magari in modo più morbido, anche per i computer: ci vorrebbe una seria formazione prima di usarne uno, mentre oggi la maggior parte delle persone lo usa senza le necessarie competenze digitali. Ecco allora che mettiamo in pericolo i nostri dati, che rischiano di venire persi o di finire nelle mani sbagliate.

La seconda considerazione riguarda invece la memoria. Storicamente la memoria delle persone e delle comunità è stata affidata a mezzi semplici, come carta e pergamena. Questi mezzi universali di trasferimento dell’informazione hanno fatto sì che sia rimasta per secoli o millenni una traccia di chi ha lasciato delle fonti basate su quel mezzo. Per non parlare poi delle fotografie stampate, che sono forse uno dei mezzi di comunicazione più immediati, semplici e universali mai creati dall’uomo. Con quei mezzi non è mai servita una formazione sulla conservazione dei dati o che andasse al di là di saper leggere e scrivere, e così le fonti dei secoli passati non si sono completamente disgregate, svanite nel nulla, proprio perché un supporto fisico e tangibile è più adatto ad essere conservato da tutti, e non solo da chi possiede determinate competenze.

I dati digitali invece sono codificati, e sono molto più volatili: sono molto più semplici da manipolare e trasferire, e per questo hanno avuto un così grande successo, ma hanno un solo e unico punto debole rispetto alle vecchie forme di memorizzazione dei dati, ovvero il fatto che è molto più facile perderli, e per questo è necessario avere delle accortezze in più. Accortezze che molte, troppe persone non hanno per mancanza di cultura e formazione, un problema grave che a lungo termine inciderà, e sta già incidendo, sulla capacità delle nostre società contemporanee di preservare la memoria.

 Per questo rischiamo di essere una generazione dimenticata, perché non siamo in grado, in troppi, di conservare le informazioni, anche importanti. Se tra qualche secolo uno storico vorrà indagare sulla nostra epoca, è probabile che faccia fatica a reperire le fonti, perché troppe persone non le hanno conservate con la giusta premura, premura che non serviva con le fonti di carta.

Un ulteriore problema a cui questo ipotetico storico si troverà di fronte, sarà quello di decifrare dati codificati in un modo obsoleto o su supporti obsoleti. Poiché i dati digitali sono codificati da un software, in futuro potrebbe essere complicato accedervi in un modo che sia comprensibile per l’essere umano proprio per la mancanza dei software che all’epoca della creazione dei dati erano in grado di leggerli. Un problema, questo, che si potrebbe risolvere forse con un’intelligenza artificiale o con un complicato lavoro di reverse engineering; nulla comunque di facile e immediato. Inoltre bisogna considerare l’obsolescenza de supporti: senza nemmeno contare il fatto che i principali supporti attualmente diffusi sono in grado di mantenere salvati i dati senza deterioramento per non più di qualche decennio senza corrente elettrica, bisogna considerare che fisicamente questi rischiano di diventare illeggibili per mancanza questa volta dell’hardware in grado di leggerli: è probabile che già oggi chi rinvenga un floppy disk decida di disfarsene piuttosto che impazzire per ritrovare un supporto in grado di leggerlo; figuriamoci fra trecento anni. Immaginando per l’appunto il solito storico nel XXIV secolo, se questo avesse rinvenuto tra le sue fonti un floppy disk di fine XX secolo o un SSD di inizio XXI, volendo leggerne il contenuto, ammesso e concesso che sia ancora almeno parzialmente leggibile, dovrebbe farsi costruire un marchingegno in grado di estrapolare i bit codificati in un modo ormai dimenticato su quel “pezzo di ferro”, e poi dovrebbe farsi scrivere a posteriori un software in grado di interpretare quei bit. Insomma, un’impresa titanica che probabilmente pochi vorranno intraprendere, con il risultato che la memoria della nostra epoca sarà destinata ad andare perduta nell’arco forse di una generazione, quando nessuno si preoccuperà più di aggiornare dati e supporti per essere leggibili su computer moderni. O forse anche prima, visto che come già esaminato, molte persone non si preoccupano di mettere al sicuro nemmeno i loro stessi dati.

Sembra quasi che l’archiviazione digitale per molte persone abbia reso i dati privi di importanza: come se una foto scattata e archiviata con il cellulare fosse meno importante di una stampata e conservata nell’album di famiglia. Anzi, sempre più persone nemmeno scattano più le fotografie. E non si tratta, come molti potrebbero pensare, dei giovani, ma anzi di quella generazione che per tutta la prima parte della propria vita era stata abituata a conservare i propri ricordi su carta, e che ora, nel mondo digitale, preferisce fare a meno di tenere traccia del proprio vissuto e delle proprie esperienze, perché non ha le competenze digitali per farlo. Al tempo stesso, la quantità di stimoli digitali da cui siamo circondati a causa dei nostri smartphone disincentiva le persone a tenere un proprio archivio, le proprie fonti che un domani saranno storiche, non meno di quelle degli influencer che tanto dominano la cultura popolare. Insomma, si vive alla giornata, e anche i dati digitali sono alla giornata: oggi ci sono, se domani non ci saranno più, pazienza. Vita liquida all’ennesima potenza. E informazione e dati liquidi, di conseguenza.

Del resto, la possibilità di archiviare virtualmente qualunque cosa, in un certo senso, fa perdere valore ai dati, che vengono da molti percepiti come meno preziosi rispetto a quando era necessario fare una selezione di cosa tenere e cosa buttare. Non si possono certamente stampare tutte le proprie foto, per una questione di spazio e di costi: di conseguenza è necessario selezionare quelle più preziose. Con le foto digitali questa selezione non viene fatta, con il risultato che tutte le foto diventano di scarso valore, anche quelle più preziose. Ecco allora che se tutti i dati diventano di scarsa importanza, possiamo anche perdere tutto senza soffrirne più di tanto.

C’è infine un ultimo punto da toccare, che è quello del web e del cloud: in un mondo in cui sempre di più i dati e l’informazione passano attraverso il web e i datacenter, si apre la questione di chi debba avere il potere di decidere cosa tenere e cosa buttare nel momento in cui si renda necessario o più economico fare spazio. Già oggi molte delle fonti online degli ultimi trent’anni sono diventate del tutto o in parte irraggiungibili, vuoi perché non esistono più i server che mantenevano online le pagine, o perché si sono rotti in link. Una sempre maggior parte del web è rotta o non funzionante: se l’informazione del mondo contemporaneo passa attraverso il web, come possiamo accettare che nel giro di pochi decenni una così grande quantità di fonti venga persa? Stiamo parlando di informazioni che per il nostro storico del XXIV secolo sarebbero fondamentali, come lo sono per noi i libri e le pubblicazioni del XVIII e del XIX secolo, ma che probabilmente non riuscirà a reperire, perché non esisterà più nulla di quello che oggi viene immesso nel web. Sarebbe questa una situazione che potrebbe facilmente portare a un mondo orwelliano, in cui non esistono più fatti oggettivi e provabili, ma solo menzogne imposte dal potere centrale. Se i dati storici sono destinati a svanire o ad essere manipolati, chi avrà il potere di farlo non esiterà a decidere la Storia a posteriori. Nessuno sarà mai abbastanza disinteressato da dare una visione oggettiva dei fatti.

Per queste e una serie di altre ragioni che non abbiamo trattato in questa sede è più che mai necessario e opportuno prestare attenzione alla conservazione dei dati: ciascuno possiede dei dati digitali che potenzialmente potrebbero diventare delle testimonianze preziose. Quindi fate i backup, e se lo ritenete, perché no, magari stampate qualcosa, di veramente importante, anche su carta. E vedrete che 1984 non sarà come “1984”.

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