La chiusura di Anandtech dimostra che il web è cambiato
Anandtech, uno dei siti più famosi nel mondo della tecnologia per i suoi contenuti di altissima qualità, ha cessato la sua attività il 30 agosto 2024, dopo aver servito per 27 anni una comunità di migliaia di lettori. Questa però non è solo la chiusura di un sito: è la prova che il web ha tradito la sua stessa ragione d’essere.
Come molti anche qui in Italia sanno, Anandtech ha chiuso i battenti alla fine della scorsa estate, dopo ben 27 anni di attività. Per chi non conoscesse il sito, si trattava di una delle realtà del giornalismo tecnologico che più hanno creduto in un approccio orientato alla qualità editoriale e all’analisi approfondita del settore: chiunque abbia letto una recensione - o anche solo una notizia - di Anandtech, sa bene quale fosse il suo livello di approfondimento e di dettaglio.
Proprio questo approccio ha decretato la fortuna e, al tempo stesso, la fine di questa bellissima iniziativa. Se da un lato, infatti, ciò ha favorito la formazione di una solida e fedele base di lettori, dall’altro ha reso complesso espandere questa base, che, giusto ricordarlo, resta pur sempre una nicchia di nerd come colui che sta scrivendo questo pezzo.
Eppure il Web dovrebbe essere un posto libero e aperto, dove tutti possono trovare il proprio spazio. Era questa la visione di Sir Tim Berners Lee, il padre del World Wide Web, per il futuro della sua invenzione, una visione che come sappiamo si è rivelata alquanto utopistica, non solo a causa delle censure, che pure esistono sul web, ma soprattutto per colpa di un tipo più subdolo e tacito di censura: quella economica.
Sì, perché oggi un gruppo di persone che volesse portare avanti un’iniziativa come quella di Anandtech dovrebbe fare i conti con un web molto diverso da quello in cui Anand Lal Shimpi pubblicò per la prima volta il suo sito nel lontano 1997. In primo luogo, il web moderno è molto più affollato, ed è difficile per i nuovi player affermarsi. E poi sempre più il web ha preso a girare attorno ai soldi: il successo di un sito, purtroppo, non dipende più tanto dalla qualità editoriale, ma dalla possibilità per un investitore di monetizzarlo. Perché un sito possa emergere dal grande buco nero di contenuti che è diventato il web, ci vogliono infatti risorse finanziarie e competenze, elementi che per essere ottenuti necessitano della possibilità concreta di monetizzare i contenuti, che di conseguenza devono essere tarati sulle masse, non certo su chi cerca qualità editoriale e libero pensiero.
Così oggi siamo arrivati a un punto in cui il web è diventato una schifezza, dove vince chi fa più soldi con i contenuti di massa, magari ottimizzati più per la SEO che per i lettori in carne e ossa. E del resto basta provare a fare qualche ricerca su Google relativa ad argomenti inerenti il mondo della tecnologia per rendersi conto che Anandtech non appare quasi mai, al punto che era diventato difficile per un utente potenzialmente interessato scoprirlo, se non attraverso le citazioni di qualche altra testata più commerciale.
E in tutto questo Google non aiuta: se, come sta cercando di dimostrare il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, Google Search è un monopolio, è evidente che il web non può essere un posto aperto, ma al contrario dovrà ruotare attorno agli interessi commerciali di Google. E quello che vuole Google sono pagine con molti clic che portino a grandi ritorni pubblicitari, non certo pagine realizzate dalle persone e per le persone.
Così siamo arrivati a quella che Ryan Smith, l’ultimo boss di Anandtech, ha definito in modo magistrale nel suo articolo di congedo come la “cable TV-ification” del web: il web sta sempre più diventando come la televisione, ovvero un posto dominato dalla comunicazione unidirezionale, dove i contenuti sono sempre più commerciali e pensati per attrare clic. Se poteva essere vero un tempo che le persone accendevano la TV per spegnere il cervello - mentre accedevano al web per accenderlo - oggi anche sul web le persone spengono il cervello, e si fanno trascinare nell’abisso di stimoli senza valore offerti dal gran calderone di Internet.
Anzi, peggio, il web è diventato come un chewing-gum, a cui le persone ricorrono per ingannare il tempo e scacciare la noia, avendo l’illusione di nutrire la propria mente, mentre invece stanno solo masticando contenuti da cui presto saranno soffocati.
Infine, una nota sull’Italia. Non è un segreto che il mercato per i contenuti di valore e di qualità come quelli di Anandtech è limitato alla sola lingua inglese. Non tanto per una questione culturale, ma per un semplice fatto di numeri: le persone che parlano Inglese nel mondo come lingua madre o come lingua straniera sono stimate essere circa 1,35 miliardi, mentre l’italiano è quasi assente fuori dai confini nazionali. È evidente che all’interno della comunità anglofona è molto più probabile raggiungere potenziali lettori interessati a contenuti tecnici e di qualità che non all’interno della ristretta cerchia di persone che comprendono l’italiano. Eppure l’Italia avrebbe un gran bisogno di contenuti di qualità e informativi sul mondo della tecnologia, non fosse altro per diffondere un po’ di cultura informatica in un paese storicamente scettico nei confronti dell’innovazione tecnologica. È quindi mio auspicio che si faccia avanti una nuova generazione di giornalisti tech, che porti una ventata di aria fresca nel settore e che restituisca alla tecnologia il fascino che merita: nessuno dimentichi che i device computazionali sono gli oggetti più incredibili mai creati dall’Uomo. Ma soprattutto spero che i nuovi giornalisti rimangano fedeli a loro stessi e ai loro principi, e che non si facciano prendere in contropiede dall’ansia di fare soldi e generare traffico, ma che pensino ai loro lettori e alle comunità che beneficiano del loro lavoro, con spirito di servizio e di umanità. Quello di Anandtech è un esempio per tutti.